lunedì 15 febbraio 2010
Quotidiano L'Osservatore Romano
La revisione del Concordato tra Italia e Santa Sede
Quello strumento di conciliazione e di solidarietà
di Gennaro Acquaviva
Presidente della Fondazione Socialismo
Nel commemorare il venticinquesimo della revisione del concordato tra Italia e Santa Sede, il cardinale Achille Silvestrini terminava il suo intervento scritto alla tavola rotonda conclusiva del convegno promosso un anno fa dalla Fondazione della Camera dei deputati con queste parole: "Il grande ricordo che ho degli esponenti di quella classe politica non è soltanto una memoria, è un esempio che va ricordato, oggi soprattutto" (Problemi e prospettive dei Patti Lateranensi a 25 anni dalla revisione, Roma, Fondazione della Camera dei deputati, 2009, p. 73). Forse sta proprio in questa considerazione di un ecclesiastico che conosce bene la politica italiana l'utilità di tornare a riflettere su quello strumento di conciliazione e di solidarietà che sembra ormai essere entrato quasi naturalmente nelle pieghe profonde della società italiana, tanto da fare quasi dimenticare, per l'evidente consenso che lo circonda, contrasti e fratture che pure hanno avuto un rilievo nella storia della Nazione italiana.
Nell'intervento al convegno tenutosi a Montecitorio il 18 febbraio 2009 il porporato enumerò i nomi di molti di quegli esponenti, a partire naturalmente da Bettino Craxi e dal cardinale Agostino Casaroli: Guido Gonella e Giulio Andreotti, Valerio Zanone e Paolo Bufalini, Lelio Basso, Gaetano Arfè e Giovanni Spadolini; e non dimenticò coloro che avevano appassionatamente messo la propria scienza al servizio del necessario rinnovamento: Arturo Carlo Jemolo, il gesuita Salvatore Lener, Roberto Ago, Vincenzo Caianiello e, ovviamente non ultimi, Francesco Margiotta Broglio e l'allora vescovo ausiliare di Milano, oggi cardinale, monsignor Attilio Nicora.
Proviamo dunque a riflettere su un fatto che ha indubbiamente rilevanza storica nel rapporto tra lo Stato e la Chiesa in Italia, ricordandolo anche da questo particolare angolo di visuale: quello cioè di una classe politica che, alla vigilia di una fine anche drammatica, dimostrò in quel decennio di avere in sé una capacità di guida e di azione considerevoli, giungendo anche allo scioglimento di diversi nodi importanti della vicenda italiana. Tra i maggiori va ricordata naturalmente la revisione concordataria, che in quel periodo poteva sembrare addirittura un reperto archeologico, non fosse altro perché erano ormai passati quasi quarant'anni dalle solenni promesse di modifica del concordato del 1929, annunciate da De Gasperi e da Togliatti nel 1947 davanti alla Costituente.
Certo non erano stati inutili quei decenni, perché l'andare della storia e il prezioso lavoro di ripulitura e di sfrondamento compiuto avevano fatto maturare sul tema un consenso diffuso, sufficiente ad attenuare, se non a risolvere, alcuni fatti traumatici che erano comunque intervenuti e che indubbiamente si erano dimostrati difficili da governare. Quello che soprattutto era mancato per la risoluzione del problema, nel corso del ventennio precedente l'avvento al Governo di Craxi, non stava solo nel merito; più importante si era dimostrata l'incapacità di solidificare una risoluzione favorevole che ormai era considerata matura, giacché alla stretta finale, di fronte a una decisione che rimaneva comunque difficile, le forze politiche e principalmente i Governi quasi si ritraevano, non riuscendo a evitare crisi e sbandamenti; in particolare, non erano in grado di generare, sia dentro che fuori il Parlamento, un consenso ampio sul tema che fosse capace anche di durare nel tempo.
Tutte queste difficoltà si dissolsero nel biennio 1983-1984 con Craxi alla guida del Governo. Non fu naturalmente opera di magia, giacché il presidente del Consiglio utilizzò con abilità la sua riconosciuta capacità di decisione, che si intrecciò con una lucida visione della storia: un combinato che il leader socialista dimostrò allora di possedere. Certo Craxi e il suo partito non erano in partenza il meglio che allora si potessero attendere i vescovi italiani e forse neppure la Santa Sede; ma entrambi aspettavano da troppo tempo un'occasione per concludere positivamente una vicenda che si trascinava ormai da molti anni e che proprio per questo presentava anche risvolti preoccupanti. Oggi possiamo riconoscere che fecero bene ad andare avanti. Questo vale in particolare per la legge di riforma del finanziamento e dei beni ecclesiastici, che rappresenta il vero punto di innovazione.
Il personaggio politico che allora rese possibile questa conclusione positiva fu, pochi anni dopo, estromesso dalla vita politica e sottoposto a gravi conseguenze giudiziarie per il finanziamento illegale ai partiti, con modalità che il presidente Giorgio Napolitano, in occasione del decennale della sua morte, ha riconosciuto essere cadute "con durezza senza eguali sulla sua persona". Craxi fu sempre un socialista liberale, duramente anticomunista; per queste medesime ragioni guardava al cristianesimo e al cattolicesimo con rispetto e attenzione, esprimendo inoltre una partecipazione appassionata alle battaglie di Giovanni Paolo ii per la promozione e la salvaguardia dei diritti di ogni uomo e di tutti i popoli.
La convinzione che lo guidò nel varare la revisione concordataria partiva dall'idea che il cristianesimo e la Chiesa romana rappresentavano in Italia un fatto di popolo, capace di parlare al Paese ed esserne un prezioso elemento coagulante; per questa ragione ritenne che la normativa e la legislazione che li riguardavano erano un atto dovuto e non un privilegio, da costruirsi naturalmente attraverso gli strumenti della democrazia parlamentare. E quando si trattò di definire la direttiva per chi dovesse rappresentare il suo Governo nel negoziato per redigere la normativa da cui nacque l'otto per mille, fu inequivoco: "Non affamate i preti", comandò netto. E aggiunse senza perifrasi la convinzione che lo sosteneva nel dettare quel comportamento: e cioè che l'Italia, il tessuto e anche la vita democratica del Paese senza la Chiesa e il suo clero non reggevano.
"Dio scrive dritto su righe storte". Tanti anni fa Livio Labor ripeteva spesso queste parole a noi giovani, appassionati ma anche agitati militanti delle Acli, le Associazioni cristiane lavoratori italiani. Credo che questo motto, usuale nel grande cattolicesimo lombardo di quel tempo, ci consenta di comprendere appieno quanto avvenne allora nel mezzo della decadenza di un sistema politico: l'emergere di una volontà decisa e insieme saggia, capace per questo di consentire la revisione del Concordato. E questo motto può aiutarci ancora oggi, dinnanzi al nostro ambiguo e difficile presente.
(©L'Osservatore Romano 14 febbraio 2010)
mercoledì 20 gennaio 2010
INTERVENTO DEL sen. GENNARO ACQUAVIVA AL CONVEGNO IN MEMORIA DI LIVIO LABOR.
Qui di seguito pubblichiamo il testo dell'intervento dell'Ottobre 2009 a Gallarate ,presso la sede ACLI di via Agnelli 33.
Sergio Moriggi:
"Passo ora la parola a Gennaro Acquaviva, ringraziandolo, poiché è arrivato da Roma e,a una certa ora ci dovrà lasciare, dovendo riprendere l’aereo per rientrare nella capitale.
Credo che lui abbia vissuto molto soprattutto la fase molto critica e discussa della vita politica di Labor".
Gennaro Acquaviva:
"Innanzitutto vi ringrazio dell’invito cortese che mi ha trasmesso Pino Borgomaneri. Ho ritrovato qui tanti amici e fratelli di un'esperienza antica, sempre viva. Questa è la mia esperienza fondativa. Certo io ho fatto politica per venticinque anni nel Partito Socialista, ma la mia esperienza nelle ACLI è stata l'esperienza decisiva nella mia vita, nella mia vita di cristiano e anche nella mia vita sociale, nel mio impegno civile.
Io entro nelle ACLI casualmente. Sono un ragazzotto di 23-24 anni che non ha molta voglia di studiare. Vado all'università, ma cerco anche di lavorare. Vengo da una famiglia molto cattolica, le mie sorelle sono tutte democristiane. Per questo quando cerco qualcosa da fare la mia famiglia mi manda da una signorina che è la presidentessa dell’AIMC, l’organizzazione che associa i maestri cattolici, la signorina Maria Badaloni. Forse tra i più anziani qualcuno la ricorderà ancora.
Era una donna straordinaria circondata da maestre donne; ma aveva bisogno di un segretario “maschio” per le questioni parlamentari. Ed io vado da lei sul finire degli anni ’50 per fare questo mestiere. Maria Badaloni governava con mano di ferro questa fortissima e potentissima organizzazione, una realtà che, insieme alla Coltivatori Diretti, costituiva allora il fronte di forza costruito da Pio XII.
Quel Papa, pur così criticato, aveva un'intelligenza politica notevole e raffinata, non usuale in un ecclesiastico. Ad esempio aveva chiarissimo che accanto e addirittura prima del “partito cristiano”, c’era bisogno che esistessero e fossero fortissime due presenze associate, capaci di governare “cristianamente” le realtà popolari di base: una che tenesse in mano i maestri elementari (l’unica scuola che allora esisteva per le grandi masse era allora infatti la scuola elementare) e l’altra che controllasse i contadini, e cioè la base sociale e produttiva allora di gran lunga maggioritaria, che più naturalmente poteva far riferimento alla Chiesa. Per questo i coltivatori diretti e i maestri elementari erano i due protagonisti su cui fondare il controllo cattolico nella società. Fu quindi per me molto utile essere “apprendista politico” in quella scuola, anche se l’esperienza non fu molto lunga. Ad un certo punto infatti mi contrapposi ai miei colleghi dell’AIMC ed allo stesso Presidente su di un tema che allora cominciava ad emergere e che fu di fatto adottato dalle ACLI alla fine degli anni ’50: l’incompatibilità tra incarichi associativi ed incarichi politico-partitici; uno strumento che, tra l’altro facilitò la scalata di Labor, nel 1961 alla presidenza delle ACLI.
È in quel tempo che casualmente conosco Geo Brenna, proprio a seguito di questa mia vicenda professionale nell’AIMC. Brenna è uomo di Labor, che ha vinto da pochi mesi il congresso delle ACLI che si svolge a Bari nel 1961, in cui Livio diventa finalmente presidente della ACLI; è uno dei suoi collaboratori più diretti, ed ha l’incarico di mettere in piedi un Ufficio Studi delle ACLI di buon livello, una struttura che rimarrà famosa nella storia delle ACLI, ed è Geo che mi chiama a lavorare all’ ufficio Studi ed è così che entro alle ACLI.
Questa esperienza, che incomincia per me alla fine del ‘62, finisce nel ‘72 con la sconfitta dell’ MPL: ed è questo è il mio decennio di vicinanza a Livio. Naturalmente anche dopo continuo a rimanergli vicino, ma con maggiore distacco. Livio, che nel frattempo è entrato nel PSI insieme a noi, è eletto membro della Direzione di quel partito nel 1973 e poi diventerà anche senatore socialista nel 1976; però i dieci anni della mia esperienza aclista con lui sono quelli decisivi per la mia formazione social-politica.
Per capire la situazione delle ACLI di quel tempo, con Labor presidente per quasi tutti gli anni ’60, occorre rispondere alla seguente domanda: qual era il punto centrale dell'esperienza delle ACLI di allora? Le ACLI furono attraversate e vissero profondamente, quasi trascinate dalla forza e determinazione di questo grande personaggio, i problemi di quel decennio (decennio decisivo e di svolta della politica e della società italiana) con forte passione, svolgendo un grande ruolo, da protagonisti e da anticipatori sia nella Chiesa che nella politica. Labor è stato un grande presidente di quelle ACLI: animatore, formatore e dirigente di un “movimento in movimento”, come recita lo slogan che lui inventò allora. Era il movimento delle ACLI e “in movimento” era la cifra della sua iniziativa, l’indicazione di una forza in azione, che non si fermava mai.
Qual’ era l’ Italia di quegli anni? C'era un Paese che incominciava, finalmente, a consumare di più, ad essere un po’ più ricco; soprattutto iniziava a formare, anche a livello di massa, nella scuola di Stato, generazioni di persone che andavano oltre il puro leggere e far di conto. Gli anni 60 sono gli anni in cui la vicenda del semplice miracolo economico si conclude nel rilancio; con un po’ di arricchimento: l'Italia si è in qualche maniera modernizzata, ha fatto il salto verso l'industrializzazione e il progresso e da quel livello di vita non tornerà più indietro.
Questa vitalità che si è esprime nel decennio del boom economico non può non toccare e tradursi anche nel sociale e nella politica. Infatti all'inizio degli anni ‘60, si avvia il dialogo della DC verso i socialisti e si realizza la cosiddetta apertura a sinistra, inaugurando una fase di impegno sociale ed anche di rinnovamento profondo nella politica dell’Italia; ma questo incontro con i socialisti - come molti di voi ricorderanno - non realizza appieno le grandi speranze riformatrici con cui nasce, anche se alcune cose importanti vengono pur fatte.
Ecco: le ACLI di Labor vivono questa esperienza ed il suo svolgimento appassionatamente, sia partecipando attivamente alla politica, sia costruendo una presenza sociale forte, in proprio e per il tramite del loro sindacato di riferimento (la CISL), ma anche andando oltre di essa.
Nelle ACLI del tempo c'era addirittura un gruppo parlamentare aclista. Le ACLI allora concorrevano direttamente con la Democrazia Cristiana nella elezione di deputati e senatori che “nasceranno”aclisti e questi eletti formavano, per spinta e coordinamento delle ACLI, un gruppo parlamentare nell’area della Democrazia Cristiana, non eversivo, ma collaborativo rispetto all’assetto del partito, sia nella società che nel Parlamento. Si realizzavano infatti battaglie politiche sulla base della comune formazione aclista e della comune appartenenza partitica, a partire dalla coerenza tra il messaggio delle ACLI, la forza delle ACLI e la realtà della politica.
Questa condizione di rapporto storico, questa condizione di solidale collaborazione, tra ACLI e DC alla fine degli anni ‘60 trova un punto di rottura, appunto a seguito della crisi del primo centro-sinistra ed anche per l’affievolirsi ed il burocratizzarsi di tante parte dell’apparato ideale e della stessa coerenza etico-politica del partito dei cattolici.
Gli aclisti di allora, gli aclisti formati - come prima Gian Enrico ricordava - a quell'esperienza così forte, che non era solo di educazione degli adulti, ma era soprattutto di animazione cristiana della loro azione sociale e politica, erano sostanzialmente della gente seria ed affidabile. In quegli anni, ad esempio, si tennero "migliaia" di corsi di spiritualità nelle ACLI e quindi si realizzarono non solo attività di formazione civile o pre-politica o para sindacale. C’era una straordinaria richiesta di formazione spirituale che, credo, abbia attraversato molti di noi, molti di voi, contribuendo fortissimamente a fare di quella organizzazione e di quei gruppi dirigenti una grande fucina di cristianesimo e di cristianesimo impegnato, disinteressato, pronto nell'attività sociale e nella politica a mettersi a servizio della gente e del bene comune. Era un cristianesimo molto teso e solidale, impegnato a cambiare il proprio Paese ed a migliorarlo, spinto a fare della politica non solo una cosa bella e santa, ma anche una cosa utile alla classe operaia, ai poveri, a quelli che non stavano bene, a coloro avevano bisogno non solo di "pane e companatico", ma anche di educazione, di formazione, di lavoro.
Questa spinta, che era molto sostenuta nelle ACLI, si trasformò per molte ragioni , verso la fine degli anni ‘60, sotto la spinta e l’ impulso di Livio, in un desiderio fortissimo di nuova politica.
Le ACLI del tempo nel loro quadro dirigente erano molto democristiane, ed era inevitabile che fosse così. Il mondo cattolico aveva allora la caratteristica di un missile, come i pezzi di una macchina: "si nasceva” nella parrocchia o nell'Azione Cattolica; poi si andava nelle organizzazioni del lavoro o professionali, e noi andavamo nelle ACLI, camminando in parallelo alla vita di Partito; poi dalle ACLI si andava al Comune, poi dal livello comunale, per i più bravi si poteva salire fino al Parlamento e al Governo. Era insomma un corpo che manteneva in sé omogeneità e finalità unitaria.
Ora, a Labor ed a molti di noi sembrò che questa grande forza in quel finire di ciclo avesse toccato un punto di arretramento e francamente anche di inquinamento nel sistema di governo, dimostrando quindi tutta la sua impotenza nell’ esprimere un'iniziativa sociale all'altezza dei bisogni, e ci apparve chiaro che tutto ciò produceva un corto circuito tale da imporci la necessità, che sentivamo come un obbligo morale prima che come un obbligo politico, di rompere questa unità obbligata e ormai negativa nel partito dei cattolici.
C'era allora, come c'è stata fino a Tangentopoli, una raccomandazione se non una imposizione da parte dei vescovi d'Italia rivolta all'unità politica nella Democrazia Cristiana. Le ragioni dell'unità politica dei cattolici erano molte, erano state sante e importantissime dal ‘43 al ‘48, forse nel ’68 – ‘70 erano meno determinanti, meno cogenti, forse anche meno giustificate.
Noi eravamo convinti - e Labor che ci guidava lo era più di tutti noi - che fosse giunto il momento di rompere questo schema e quindi di portare le organizzazioni del laicato cattolico, in particolare le ACLI, ad autonomizzarsi, a camminare da soli verso la politica, partendo inevitabilmente con il rompere questo schema unitario del mondo cattolico.
Per noi era importante rendere possibile il fatto che il voto di ciascun aclista fosse libero e l'unità politica dei cattolici in un solo partito non fosse un obbligo, ma fosse una scelta libera di chi la voleva. Labor scrisse in quegli anni un bel libro con cui poi iniziò la sua avventura politica, libro che appunto intitolò "In campo aperto"; la nostra idea era che fosse necessario che queste energie così cospicue, così sante, così belle, così forti e intellettualmente all'altezza (e che in parte si esprimevano anche nelle ACLI) fossero appunto disponibili “in campo aperto”, per il rinnovamento della politica, per il suo cambiamento, per un miglioramento generale nella gestione della cosa pubblica.
Com’è facile comprendere tutto questo si traduceva di fatto in una rottura del partito democristiano, con la necessita di dar vita, in qualche maniera, con forme e tempi da definire ad un'altra formazione politica, ad un aggregato di cattolici orientati a sinistra.
Ed è questo, in termini concreti, che è poi avvenne, tra il 1969 (Congresso ACLI di Torino) ed il 1972 (elezioni politiche)
Qui incomincia l’autonoma avventura politica di Labor fuori dalle ACLI, a partire dal 1969, un’avventura che si concluderà non tragicamente ma con la sua e nostra sconfitta.
Se posso esprimere oggi una opinione serena (ormai sono passati più di quarant’anni), andando oltre il racconto di quanto allora avvenne, vorrei soprattutto tornare a richiamare il sentimento di insopportabilità che ci aveva allora coinvolto riguardo alla gestione, che consideravamo sciagurata, di tanta parte della politica DC. Si trattava di una tensione che era più che personale giacché toccare le ragioni morali e spirituali di un gruppo che aveva cominciato ad essere tale nelle ACLI, proprio in ragione del fatto che esse erano sante e povere, erano in movimento teso alla promozione della giustizia e alla crescita umana della classe operaia, nella fedeltà della testimonianza cristiana. In fondo fu questa insopportabilità a spingerci a proclamare il voto libero degli aclisti, a rompere il collateralismo con la Democrazia Cristiana, a fare un Partito e ad andare di fronte agli elettori per chiedere il loro voto.
Il risultato, ripeto, fu un fallimento, nel senso che questo partito, nella fase preparatoria fu abbandonato dai suoi alleati (sia dalla Cisl, che dalla sinistra democristiana rappresentata dalla corrente di Forze nuove e da Donat Cattin) e poi spinto ad andare alle elezioni anticipate del 1972 talmente isolato che fu sconfitto clamorosamente: prese infatti solo 120.000 voti, lo 0,4% dell'elettorato del tempo.
Cosa era successo? Secondo me - ma qui immagino che le opinioni possano essere divergenti - era successo che non eravamo stati in grado di interpretare, come doveva essere correttamente interpretato, quel disagio e quella volontà di cambiamento. Se noi oggi alziamo un poco lo sguardo dalle miserie della nostra vita politica, dalla conduzione dell'attuale governo - adesso qui non vogliono entrare nel merito del disagio, che credo ci attraversi tutti - dobbiamo constatare come il sistema politico, pur essendo riuscito in qualche maniera a modificarsi dopo il 1992-‘94, torni oggi ad essere senza basi sicure, quasi indeterminato nelle sue finalità, di fatto incapace di esprimere, attraverso la democrazia ed il consenso, una politica all’altezza del bisogno di crescita e di sviluppo del Paese, una crescita non solo materiale ma anche morale di questa Nazione, pur così piena di meriti e colma di beni morali e materiali. Se oggi noi constatiamo questo, voi potete immaginare come, in quegli anni, quei poveri aclisti che stavano intorno a Labor vedevano tradito il loro messaggio dentro ad un sistema che non li rappresentava più, dentro questa condizione di insopportabilità a cui ormai era pervenuto l’ interclassismo della Democrazia Cristiana che dovendo coprire tutto, tutto l'arco degli interessi e delle esigenze, dall'estrema sinistra all'estrema destra, di fatto non riusciva a dare le risposte che erano obbligate, che erano pretese dalla necessità di realizzare giustizia e progresso sociale.
Di fronte al disagio con cui oggi guardo – questo vale per me, ma credo di non essere solo - la realtà politica del paese, constato come esso nasca in qualche maniera anche dal nostro fallimento di allora.
Di fatto Labor e noi tutti non fummo in grado di costruire allora, quando forse il tempo c'era, non un'alternativa alla Democrazia Cristiana ma una forza di sinistra cattolica forte della sua convizione, certa del suo retroterra sociale, libera nelle sue idealità, in grado quindi di operare realmente per la ricollocazione e la riforma del sistema politico in termini non solo più razionali ma soprattutto più coerenti alla realtà sociale reale del Paese
Che cosa sarebbe successo del sistema politico italiano se fosse nato allora un partito fondato sulla pratica, i valori ed anche gli uomini del cattolicesimo sociale, un partito solidaristico e progressista, ben innestato sulla forza del mondo cattolico sociale negli anni ’68 –’72 ?
Come poteva essere cambiato il destino del decennio che si allora apriva e che fu poi tragico, non solo per il sangue che lo attraversò, ma anche per le sconfitte che la modernità inflisse ad un mondo cattolico impreparato e sostanzialmente indifeso?
La sconfitta sul divorzio è del ‘74, e fu il segno di una sconfitta drammatica per la Chiesa e per i vescovi che incise in maniera decisiva su di loro ma anche sull’andare della nostra vita politica. Da allora la Chiesa cattolica, ed in particolare il mondo cattolico unito non si ripresero più da quella che fu considerata una vera tragedia, che vissero quasi come un evento epocale difficilmente insopportabile. Per non parlare poi dell’impazzimento che attraversò tante file di giovani e di sacerdoti, anche dentro di noi e senza che fossimo in grado di assicurare alla loro crisi una sponda credibile e vicina e solidale.
Mi corre infine l’obbligo di ricordare il fatto che noi fummo in qualche maniera colpevoli (non avendo ben gestito quel passaggio) nella compromissione delle ACLI fino alla condanna di Paolo VI.
Anche se non si trattò di una condanna vera e propria, la nostra iniziativa pubblica spinse Paolo VI, forse mal consigliato, a dichiarare allora, nel 1971 le ACLI "non gradite”.
Dall'altezza di quel Magistero quelle parole assunsero allora un peso ancor più grave perché erano pronunciate da chi aveva inventato le ACLI nel 1944 ( bisogna infatti ricordare che Montini era stato all'origine di questa creazione, giacché allora sostenne la tesi, anche nei confronti di Pio XII, che bisognava fare per forza il sindacato unitario e che quindi occorresse costruire contemporaneamente un luogo di solidarietà e di unione del sociale cristiano, proprio per mantenerlo unito; così si inventano le ACLI, così agili, così disponibili a fare mille mestieri, fino al punto di fare poi il mestiere per cui erano nate inizialmente, cioè la Cisl, cioè di essere in grado di costruire, da un giorno all'altro, un nuovo sindacato dopo l'attentato a Togliatti del ‘48). Insomma quelle parole di condanna pronunciate dal balcone di Piazza S. Pietro furono gravissime per le ACLI. Ed in qualche maniera io me le sento ancora sulla coscienza.
Noi stessi, essendo in qualche maniera rimasti per strada anche noi stessi, non avendoci guadagnato nulla noi stessi - fummo ripeto di fatto all'origine di quella bella “botta", data alle ACLI dal suo fondatore; all'origine di una "tranvata" che è caduta sulla testa di questa grande organizzazione. Vorrei ricordare che a parte gli assistenti che furono tolti in cinque minuti, il giorno dopo la condanna papale la sede centrale delle ACLI fu ripresa dal Vaticano, ritirarono l’uso dell’edificio e tolsero i finanziamenti, quelli diretti dalla Segreteria dello Stato vaticana che, nell’ultimo anno di presidenza Labor erano stati di almeno 250 milioni, che da allora non arriveranno più. Senza stare qui a raccontare segreti, per quel che so io quel finanziamento decisivo, nel ’71, sparì all’improvviso; fate voi il conto di quanti miliardi sarebbero oggi. Insomma le ACLI non solo persero il consenso e persero gli assistenti, ma persero anche la forza materiale di stare in piedi, di avere un sostegno libero e non vincolato.
Sbagliammo? Non sbagliammo? Chi lo può dire ma vi confesso che io mi sento un po' questa colpa addosso ancora oggi. Voglio chiudere aggiungendo che quel periodo, il periodo di Labor, va studiato seriamente. Da qualche tempo, sto tentando di mettere insieme un gruppo di storici per cercare di raccontare e valutare criticamente quel decennio che corre dal 1962 al ‘72, che non è solo il decennio di Labor ma anche il decennio decisivo delle ACLI. Per far questo ho scritto una traccia di una ventina di pagine, sono andato dal Presidente pro tempore delle ACLI, che mi ha dato un grande consenso. Senza le carte delle ACLI, senza il sostegno delle ACLI non mi sentivo di farlo. Ho parlato con Casula, un bravissimo storico romano che è stato con me il coautore dei due volumi in cui abbiamo raccolto qualche anno fa gli scritti e i discorsi di Livio, per chiedere il suo aiuto.
Proviamo a scrivere questa vicenda prima di morire, cerchiamo di raccogliere le memorie ed i fatti e di interpretarli senza partigianeria, raccogliendo comunque tutte le testimonianze possibili, sia perché quella storia - come prima Gian Enrico ricordava - è bene che non si perda per quello che tutti noi ci abbiamo messo dentro, sia anche perché forse potrebbe essere utile per i nostri figli, per quanti oggi vogliono agire in positivo, andando oltre gli errori ma anche oltre la generosità con cui allora ci impegnammo totalmente in una bella e giusta battaglia, con la guida e l’esempio di quel personaggio straordinario che è stato Livio Labor".
Il testo integrale può essere letto anche nel sito ufficiale della Fondazione Socialismo
NENCINI:ELOGI A NAPOLITANO PER LA LETTERA ALLA FAMIGLIA CRAXI;POI AGGIUNGE:RINNOVIAMO LA SINISTRA ITALIANA,METTIAMO IN CANTIERE "QUELLE" RIFORME...
HAMMAMET.
L'attuale segretario del PSI,esprime con lungimiranza:
“La lettera, ottima e totalmente condivisibile, inviata dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla vedova di Bettino Craxi nel decennale della morte, fa giustizia delle bugie e delle infamità che in questi anni, e perfino in queste ore, sono state pronunciate a proposito dell’ex segretario del Psi”.
Il messaggio di Napolitano riconcilia l'Italia migliore con una bella storia del novecento italiano. La bella storia e' la storia del Psi che nel novecento ha reso l'Italia piu' libera. Oggi, infatti e' anche il centesimo anniversario della morte di Andrea Costa, primo parlamentare socialista.
L’onestà intellettuale del Capo dello Stato – ha proseguito Nencini - è tanto più apprezzabile se messa in relazione alle ambiguità e ai silenzi che hanno a lungo nutrito il partito in cui per tanti anni egli ha militato. Una posizione davvero esemplare soprattutto se messa a confronto con la strumentalità di certe posizioni del Pdl, degli accenti vergognosi dell’Italia dei Valori e dei Comunisti di Ferrero, e della assai poco comprensibile timidezza dei vertici del Partito Democratico.
C’è da augurarsi che quanto avvenuto in questo decennale serva veramente a voltare pagina.
Oggi, se si ripenserà con la dovuta attenzione e serenità all’opera politica di Bettino Craxi, - ha concluso il segretario del Psi - si potrà contribuire a mettere in cantiere quelle riforme di cui il nostro paese ha un disperato bisogno e avviare finalmente un profondo e completo rinnovamento della sinistra italiana”.
Queste le parole di Nencini alla cerimonia svoltasi al cimitero di Hammament,dove inoltre erano presenti assieme al presidente del Consiglio nazionale del partito, Pia Locatelli, Angelo Sollazzo e Roberto Biscardini, della segreteria nazionale, Pieraldo Ciucchi e Michele Pangia della Direzione e una folta delegazione di iscritti e simpatizzanti giunti dall’Italia.
C'è da aggiungere,in fine, che l'attuale segretario del PSI ha consegnato alla vedova Craxi due messaggi da parte di Ugo Intini e Rino Formica.
martedì 19 gennaio 2010
La Lettera di Napolitano alla famiglia Craxi
"Cara Signora, ricorre domani il decimo anniversario della morte di Bettino Craxi, e io desidero innanzitutto esprimere a lei, ai suoi figli, ai suoi famigliari, la mia vicinanza personale in un momento che è per voi di particolare tristezza, nel ricordo di vicende conclusesi tragicamente. Non dimentico il rapporto che fin dagli anni '70 ebbi con lui per il ruolo che allora svolgevo nella vita politica e parlamentare. Si trattò di un rapporto franco e leale, nel dissenso e nel consenso che segnavano le nostre discussioni e le nostre relazioni anche sul piano istituzionale. E non dimentico quel che Bettino Craxi, giunto alla guida del Partito Socialista Italiano, rappresentò come protagonista del confronto nella sinistra italiana ed europea.
Ma non è su ciò che oggi posso e intendo tornare.
Per la funzione che esercito al vertice dello Stato, mi pongo, cara Signora, dal solo punto di vista dell'interesse delle istituzioni repubblicane, che suggerisce di cogliere anche l'occasione di una ricorrenza carica - oltre che di dolorose memorie personali - di diversi e controversi significati storici, per favorire una più serena e condivisa considerazione del difficile cammino della democrazia italiana nel primo cinquantennio repubblicano.
E' stato parte di quel cammino l'esplodere della crisi del sistema dei partiti che aveva retto fino ai primi anni '90 lo svolgimento della dialettica politica e di governo nel quadro della Costituzione. E ne è stato parte il susseguirsi, in un drammatico biennio, di indagini giudiziarie e di processi, che condussero, tra l'altro, all'incriminazione e ad una duplice condanna definitiva in sede penale dell'on. Bettino Craxi, già Presidente del Consiglio dal 1983 al 1987. Fino all'epilogo, il cui ricordo è ancora motivo di turbamento, della malattia e della morte in solitudine, lontano dall'Italia, dell'ex Presidente del Consiglio, dopo che egli decise di lasciare il paese mentre erano ancora in pieno svolgimento i procedimenti giudiziari nei suoi confronti.
"Si è trattato - credo di dover dire - di aspetti tragici della storia politica e istituzionale della nostra Repubblica, che impongono ricostruzioni non sommarie e unilaterali di almeno un quindicennio di vita pubblica italiana. Non può dunque venir sacrificata al solo discorso sulle responsabilità dell'on. Craxi sanzionate per via giudiziaria la considerazione complessiva della sua figura di leader politico, e di uomo di governo impegnato nella guida dell'Esecutivo e nella rappresentanza dell'Italia sul terreno delle relazioni internazionali.
Il nostro Stato democratico non può consentirsi distorsioni e rimozioni del genere. Considero perciò positivo il fatto che da diversi anni attraverso importanti dibattiti, convegni di studio e pubblicazioni, si siano affrontate, tracciando il bilancio dell'opera di Craxi, non solo le tematiche di carattere più strettamente politico, relative alle strategie della sinistra, alle dinamiche dei rapporti tra i partiti maggiori e alle prospettive di governo, ma anche le tematiche relative agli indirizzi dell'attività di Craxi Presidente del Consiglio.
Di tale attività mi limito a considerare solo un aspetto, per mettere in evidenza come sia da acquisire al patrimonio della collocazione e funzione internazionale dell'Italia la conduzione della politica estera ed europea del governo Craxi: perchè ne venne un apporto incontestabile ai fini di una visione e di un'azione che possano risultare largamente condivise nel Parlamento e nel paese proiettandosi nel mondo d'oggi, pur tanto mutato rispetto a quello di alcuni decenni fa. Le scelte di governo compiute negli anni 1983-87 videro un rinnovato, deciso ancoraggio dell'Italia al campo occidentale e atlantico, anche di fronte alle sfide del blocco sovietico sul terreno della corsa agli armamenti ; e videro nello stesso tempo un atteggiamento "più assertivo" del ruolo dell'Italia nel rapporto di alleanza - mai messo peraltro in discussione - con gli Stati Uniti.
In tale quadro si ebbe in particolare un autonomo dispiegamento della politica estera italiana nel Mediterraneo, con un coerente, equilibrato impegno per la pace in Medio Oriente. Il governo Craxi e il personale intervento del Presidente del Consiglio si caratterizzarono inoltre per scelte coraggiose volte a sollecitare e portare avanti il processo d'integrazione europea, come apparve evidente nel semestre di presidenza italiana (1985) del Consiglio Europeo.
Né si può dimenticare l'intesa, condivisa da un arco assai ampio di forze politiche, sul nuovo Concordato: la cui importanza è stata pienamente confermata dalla successiva evoluzione dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Numerosi risultano in sostanza gli elementi di condivisione e di continuità che da allora sono rimasti all'attivo di politiche essenziali per il profilo e il ruolo dell'Italia. In un bilancio non acritico ma sereno di quei quattro anni di guida del governo, deve naturalmente trovar posto il discorso sulle riforme istituzionali che aveva rappresentato, già prima dell'assunzione della Presidenza del Consiglio, l'elemento forse più innovativo della riflessione e della strategia politica dell'on. Craxi.
Nel quadriennio della sua esperienza governativa quel discorso tuttavia non si tradusse in risultati effettivi di avvio di una revisione della Costituzione repubblicana. La consapevolezza della necessità di una revisione apparve condivisa attraverso i lavori di una impegnativa Commissione bicamerale di studio (presieduta dall'on. Bozzi): ma alle conclusioni, peraltro discordi, di quella Commissione nel gennaio 1985 non seguì alcuna iniziativa concreta, di sufficiente respiro, in sede parlamentare. Si preparò piuttosto il terreno per provvedimenti che avrebbero visto la luce più tardi, come la legge ordinatrice della Presidenza del Consiglio e, su un diverso piano, significative misure di riforma dei regolamenti parlamentari.
Tra i problemi che nell'Italia repubblicana si sono trascinati irrisolti, c'è certamente quello del finanziamento della politica. Si era tentato di darvi soluzione con una legge approvata nel 1974, a più di venticinque anni dall'entrata in vigore della Costituzione. Ma quella legge mostrò ben presto i suoi limiti, in particolare per la debolezza dei controlli che essa aveva introdotto. Attorno al sistema dei partiti, che aveva svolto un ruolo fondamentale nella costruzione di un nuovo tessuto democratico nell'Italia liberatasi dal fascismo, avevano finito per diffondersi "degenerazioni, corruttele, abusi, illegalità", che con quelle parole, senza infingimenti, trovarono la loro più esplicita descrizione nel discorso pronunciato il 3 luglio 1992 proprio dall'on. Craxi alla Camera, nel corso del dibattito sulla fiducia al governo Amato.
Ma era ormai in pieno sviluppo la vasta indagine già da mesi avviata dalla Procura di Milano e da altre. E dall'insieme dei partiti e dei loro leader non era venuto tempestivamente un comune pieno riconoscimento delle storture da correggere, nè una conseguente svolta rinnovatrice sul piano delle norme, delle regole e del costume. In quel vuoto politico trovò, sempre di più, spazio, sostegno mediatico e consenso l'azione giudiziaria, con un conseguente brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia. L'on. Craxi, dimessosi da segretario del PSI, fu investito da molteplici contestazioni di reato. Senza mettere in questione l'esito dei procedimenti che lo riguardarono, è un fatto che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza eguali sulla sua persona. Nè si può peraltro dimenticare che la Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo - nell'esaminare il ricorso contro una delle sentenze definitive di condanna dell'on. Craxi - ritenne, con decisione del 2002, che, pur nel rispetto delle norme italiane allora vigenti, fosse stato violato il "diritto ad un processo equo" per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea.
"Alle regole del giusto processo, l'Italia si adeguò, sul piano costituzionale, con la riforma dell'art. 11 nel 1999. E quei principi rappresentano oggi un riferimento vincolante per la legislazione nazionale e per l'amministrazione della giustizia in Italia. Si deve invece parlare di una persistente carenza di risposte sul tema del finanziamento della politica e della lotta contro la corruzione nella vita pubblica. Quel tema non poteva risolversi solo per effetto del cambiamento (determinatosi nel 1993-94) delle leggi elettorali e del sistema politico, e oggi, in un contesto politico-istituzionale caratterizzato dalla logica della democrazia dell'alternanza, si è ancora in attesa di riforme che soddisfino le esigenze a cui ci richiama la riflessione sulle vicende sfociate in un tragico esito per l'on. Bettino Craxi.
E' questo, cara Signora, il contributo che ho ritenuto di dover dare al ricordo della figura e dell'opera di suo marito, per l'impronta non cancellabile che ha lasciato in un complesso intreccio di luci e ombre, nella vita del nostro Stato democratico.
Con i più sinceri e cordiali saluti".
(18-01-2010)
lunedì 18 gennaio 2010
NENCINI: CRAXI ERA DI SINISTRA. NO A CELEBRAZIONI STRUMENTALI
“Non bastano le celebrazioni interessate e strumentali, a cominciare da quelle di alcuni ex dirigenti del Psi oggi nel suo governo, a falsificare la storia di Bettino Craxi tentando di iscriverlo post mortem nelle file del centrodestra”.
E’ il commento del segretario del Psi, Riccardo Nencini, che sarà domani ad Hammamet per ricordare il leader socialista nel decennale della sua scomparsa.
“Sarà stato anche amico di Berlusconi, - continua Nencini - ma lo era, e molto di più, di tantissimi esponenti della sinistra italiana e internazionale che lo stimavano, oltre che per le sue qualità, proprio per le sue intelligenti e lungimiranti posizioni di socialista autentico che stava sempre dalla parte dei deboli e della libertà. Gli errori e i silenzi di una parte della sinistra italiana, in particolare del Pci e dei suoi eredi, - conclude il segretario del Psi - non possono cancellare la realtà dei fatti. Prima verranno riconosciuti come tali, prima sarà possibile anche in Italia recuperare quei milioni di elettori socialisti che da un quindicennio disertano le urne o votano per il centrodestra”.
"Poteva cambiare il sistema,Si accordò:fu l'inizio della fine"
INTEVISTA
Acquaviva:PSI sano al vertice e corrotto alla base?Una balla.Berlusconi,niente paralleli.
"NO,non sarò ad Hammamet.Bettino aveva paura di guardare ai problemi della vita e della morte,ai suoi perchè,figuriamoci se amava le commemorazioni"
Gennaro Acquaviva,socialista cattolico-lavorò al concordato bis dell'84-di Craxi fu capo della segreteria.Mai sfiorato da un 'inchiesta,ha pagato il prezzo della demonizzazione.Oggi presiede la "Fondazione socialismo" cura la memoria,anche di Craxi.
Ma dice:"Che il sistema fosse sano al vertice e corrotto alla base è una balla".
CHI FU CRAXI?
"Un innovatore.Con De Gasperi e Fanfani tra i migliori leader del dopoguerra.Dopo De Gasperi il miglior Premier.Dominò gli anni '80.Poi il crollo".
DOVUTO A COSA?
"Era l'uomo del cambiamento,un minoritario marginale,l'unico in grado di modificare il bipartitismo obbligatoriamente imperfetto,il consociativismo che,pur positivo per altri versi,nel tempo solidificò corporazioni ed interessi minuti per la mancanza di alternativa.Il sistema gli resistette e lui mancò la prova".
DOVE SBAGLIO'?
"Avendo dimostrato di poter cambiare le regole consociative -pensi alla scala mobile- nell'87,ad un bivio drammatico- la rivendicazione di De Mita del patto della staffetta,il massimo della partitocrazia- forse per timore dei comunisti,forse per intima debolezza,si accordò al sistema dominante invece di forzare il sistema scegliendo la via plebiscitaria.Fu l'inizio della fine".
PERCHE'?
"Una sorta di tradegia greca:se non cambi al momento giusto la macchina che puoi guidare solo tu,se finisci nel fosso,sarà pure arrivato Di Pietro,ma tu non eri in grado di fermarlo.Da questo punto di vista è profondamente errato il parallelismo di Berlusconi,non è corretto:Berlusconi ha il 60 per cento del parlamento!Bettino era solo"
UN GIUDIZIO DISTACCATO,CHE LEGA MERITI E COLPE,NON E' POSSIBILE PROPRIO PER QUEL PARALLELISMO?
"Sì è così.La demonizzazione non c'è più,ma non è giusto che lui torni ad essere usato dagli opportunisti che o lo hanno condannato o lo hanno succhiato".
PENSA A BERLUSCONI?
"A Berlusconi e ai socialisti che lo usarono.Non è giusto farsene scudo o dire che non sbagliò nulla.Commise quell'errore grave avendo occasione e intelligenza per cambiare.E sono certo che che lui stesso,dopo,lo capì anche se non lo avrebbe mai ammesso.Poi,certo,no era il maggior colpevole e pagò troppo:il sistema è ancora lo stesso,immutabile,perchè ognuno sta bene nella sua nicchia".
STEFANIA CRAXI SOSTIENE CHE SI FIDO' DELLE PERSONE SBAGLIATE E NON CAPI' QUANTO IL PSI ERA CORROTTO.E' POSSIBILE CHE FOSSE COSI' CIECO?
"No,non è così.Sicuramente sbagliò a fidarsi delle persone che non lo hanno difeso e sostenuto.E sicuramente il sistema di finanziamento dei partiti era illegittimo ed illegale per tutti.Ma che fosse sano al vertice e corrotto alla base è una balla".
mercoledì 13 gennaio 2010
Fondazione NUOVO MEZZOGIORNO incontro
Giovedì 28 Gennaio 2010 alle ore 15,30, in onore del compagno socialista scomparso NICOLA CAPRIA, presso il PALAZZO DELLA PROVINCIA,Salone degli Specchi,di Messina si terrà il dibattito, inteso ad istituire una borsa di studio annuale per i giovani laureandi i quali partecipano e aiutano a ripercorrere il rigoroso cammino delle idee e dei caratteri peculiari del lungo tragitto vissuto dalla nostra Democrazia unitamente alle ragioni di alcuni suoi ritardi.
Interverranno:
-Paolo Piccione
-Santi Fedele
-Gaspare Saladino
-Luigi Granata
-Elvezio Galanti
-Salvo Andò
-Claudio Signorile
MODERATORE : Pompeo Oliva
Segreteria Organizzativa:c/o Francesco Barbalace-Cell.3351234815
e-mail:lacebar@virgilio.it
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